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Brebbia sorge su una verde piana, circondata da una mezzaluna di colline moreniche, che si spinge fino alle sponde del Lago Maggiore, le invidiate Sabbie D’oro.
Le origini di Brebbia appartengono a molto tempo fa: risalgono all’età del bronzo e sono testimoniate da reperti affiorati nelle adiacenze della palude Pavidolo nel corso di lavori di estrazione della torba nel 1881. Dopo le prime scoperte sono seguiti ulteriori scavi archeologici, che hanno prodotto il ritrovamento di spilloni di bronzo, coltelli di selce e pugnali di legno, oggetti che hanno lasciato supporre delle connessioni con altre stazioni preistoriche presenti nel territorio.
Nelle aree di Bozza e Chigerrima alcuni scavi eseguiti presso il laghetasc hanno portato alla luce oggetti presumibilmente rinviabili al periodo golasecchiano, ovvero del V secolo a.C.
Testimonianze archeologiche più consistenti sono quelle che si hanno dell’epoca romana di Brebbia, a quel tempo vicus, ovvero il centro di una comunità che raccoglieva anche Angera, Ispra, Barza, Besozzo e Leggiuno, nodi del traffico commerciale romano. Il cospicuo numero di are e lapidi, ora esposte in vari musei e collezioni private, sta ad indicare l’intensa attività di venerazione alla dea Minerva, le Matrone ed Ercole. Ma non solo, da diverse epigrafi e altri ritrovamenti si è giunti a supporre l’esistenza di bagni o terme, destinate di conseguenza ad una cospicua popolazione.
Più tardi, in epoca cristiana, l’importanza di Brebbia si affermò maggiormente, grazie all’opera di evangelizzazione portata avanti da San Giuliano e San Giulio. A quest’ultimo va ascritta l’edificazione della chiesa dedicata a San Pietro, primo edificio religioso di cui si ha conoscenza, secondo quanto riportano documenti del X secolo.
Brebbia era un nucleo abitato particolarmente importante tantoché in epoca longobarda divenne capopieve (la Collegiata comprendeva un prevosto e diciotto canonici) riprendendo le estensioni dell’antico castrum romano, con una giurisdizione che copriva il territorio che andava da Gavirate a Biandronno, da Cazzago Brabbia a Barza, sino a Monvalle e Travedona.
Brebbia ospitò anche un altro edificio in seguito andato perduto, ovvero il Castellaccio, di proprietà della Curia attorno all’anno 1000. Questo luogo accolse personaggi di valore come Goffredo da Castiglione nel 1072, e una serie di arcivescovi fino a circa il 1263, quando venne abbattuto dai Della Torre dopo la loro vittoria sui Visconti.
Eppure il titolo di capopieve di Brebbia non era destinato a durare a lungo, poiché il feudo di cui faceva parte il borgo era suddiviso in vici, o loci, e divenne dominio di numerosi proprietari, tanto da subire una erosione del suo valore. A cominciare da Pietro Besozzi, che ottenne il possedimento da Facino Cane nel 1410, per poi ottenere una riconferma due anni dopo da parte di Filippo Maria Visconti. Nel 1417 però, i fratelli Antonio, Loterio e Ludovico Besozzi rinunciarono alla pieve in favore di quella di Besozzo.
Nel 1514 il feudo venne assegnato dal duca Massimiliano Sforza a Ludovico Visconti Borromeo, il quale ottenne nuova conferma nel 1525 da Francesco II Sforza. Nel 1536 la pieve toccò poi al figlio di Ludovico, Vitaliano, dietro concessione dell’imperatore Carlo V. Questi continui passaggi furono paralleli al lento declino economico di Brebbia, di cui fu testimone anche il trasferimento di capopieve a Besozzo, nel 1574, eseguito per disposizione di San Carlo Borromeo.
Nella metà del XVI secolo sul territorio di Brebbia erano sparsi un grande numero di mulini e i terreni appartenevano a diversi proprietari, nobili, ecclesiastici e piccoli possidenti, i quali risiedevano all’interno della pieve, della quale faceva anche parte il nucleo di Malgesso. Ma gli anni di declino furono anche demografici: nel 1595 vi erano sessanta nuclei familiari per un totale di 408 abitanti, che vennero ridotti di 122 unità dopo il passaggio della peste tra il 1576-1577 e il 1585-1586. Questo flagello epidemico si verificò nuovamente, nel 1630, a cui si aggiunse la presenza delle truppe francesi, che insieme causarono una riduzione delle nascite e del numero di famiglie, passate in poco più di quarant’anni da sessanta a quarantacinque.
Nel 1667 la pieve di Brebbia, per mancanza di proprietari di terre locali, venne concessa a Pirro Visconti Borromeo, nominato conte del feudo da parte di Carlo II. A quel tempo la discendenza feudale era garantita solo ai maschi primogeniti della famiglia, però nel 1700 proprio Carlo II rese legale anche la discendenza femminile, vista la mancanza di primogeniti a cui affidare il dominio delle terre. E così le sorelle Paola ed Elisabetta Visconti Borromeo, maritate rispettivamente con Antonio e Pompeo Giulio Litta, ottennero il feudo, dando origine alla discendenza Litta Borromeo Arese. Da questa si ebbe poi la linea dei Litta Visconti Arese, che nel 1791 impartì l’ordine ai chirurghi di “medicare gratuitamente tutti gli ammalati poveri”.
Nel 1796 giunsero le truppe francesi e venne abolito il sistema feudale, e i benefici allora vigenti vennero mantenuti ma furono tuttavia introdotti obblighi del tutto nuovi per gli abitanti di Brebbia, tra cui il servizio militare, dal quale molti giovani brebbiesi preferirono disertare. Ma anche gli obblighi fiscali verso il centralizzato Stato napoleonico non erano particolarmente graditi dalla popolazione. Infatti, a differenza dei tributi versati in passato, l’onere fiscale imposto dai francesi serviva per sponsorizzare guerre, tra cui quella contro gli Austriaci, che non corrispondeva affatto al sentimento dei brebbiesi, i quali piuttosto erano più propensi alla ribellione verso le leggi francesi, già accettate delle autorità comunali. Altro motivo di poca inclinazione verso le truppe napoleoniche fu il loro impadronimento di beni e derrate alimentari dai brebbiesi, che avvenne dopo il breve intermezzo di comando austriaco del 1799 – 1800.
Sconfitto Napoleone, il territorio Lombardo-Veneto diventò definitivamente di dominio dell’Impero asburgico e Brebbia questa volta fece meno fatica ad adeguarsi alle nuove disposizioni amministrative e al Consiglio comunale, formato dalle persone di spicco del paese e ridenominatosi, come prima dell’occupazione francese, Convocato generale degli estimati. Ma non mancarono alcune rimostranze nei confronti di episodi di corruzione e abusi commessi dai membri del Convocato nell’attuazione delle pratiche amministrative. A quel tempo Brebbia continuava a far parte del vasto territorio del Dipartimento del Lario, istituito dalla Repubblica Cisalpina nel 1801, cosa che rendeva difficile alle autorità operare una corretta giustizia amministrativa e un controllo delle illegalità, tra cui il contrabbando, che si perpetuava sulle sponde del lago ai confini elvetici. Queste sacche criminali svolsero anche la funzione di accoglimento delle bande dei primi garibaldini, che trovarono così più agevole l’attuazione delle loro azioni di guerriglia.
Nel 1861, anno dell’unità d’Italia, Brebbia era composta da 1140 abitanti, per la maggior parte mugnai; gli scolari ammontavano a 50 durante tutto l’anno scolastico, a cui se ne aggiungevano 9 che partecipavano ai corsi solo stagionalmente, una volta conclusisi i lavori agresti. Solo otto brebbiesi avevano diritto ad eleggere i componenti del Parlamento nazionale, mentre settantadue abitanti avevano il diritto di votare per le cariche amministrative locali; le cose non andarono molto meglio nel 1886, quando solo 142 avevano diritto di voto.
Alla fine del 1800 le risorse economiche di Brebbia si fondavano principalmente sulle attività agricole, seguite poi dai lavori nelle filande e nelle torbiere, ma queste occupazioni non erano sufficienti per il sostentamento degli abitanti, tantoché alcuni di essi espatriavano stagionalmente in Francia e in Svizzera, e altri emigrarono negli USA e in America Latina. I mutamenti sociali intanto, determinati in buona misura dalla rivoluzione industriale, favorirono lo sviluppo di ideologie liberali e socialiste che premevano verso un impegno da parte dell’ambiente cattolico in favore delle questioni sociali e dell’assistenza.
Cominciò così a emergere un personaggio particolarmente importante e illuminato, don Luigi Mari, prevosto di Brebbia dal 1900 al 1916. La sua opera indefessa portò alla fondazione di numerosi istituti: la Società di Mutuo Soccorso agricolo-operaia di San Giulio, dedita alla istruzione professionale e al miglioramento delle condizioni culturali e morali del lavoratori; la Lega femminile del lavoro, che aveva simili propositi; l’Unione agricole; la Cassa rurale San Giuseppe, per supportare le imprese nascenti, tra cui la Latteria sociale San Giorgio; l’Opera dei pellegrinaggi; la prima banda del paese: il Corpo musicale di San Giulio e la Filodrammatica.
Si ebbe poi la conclusione della prima guerra mondiale, che privò Brebbia di sessantacinque giovani e che consentì un sensibile avanzamento economico del paese, in concomitanza con l’apertura di opifici nel comune e nelle zone adiacenti. Ma come coi francesi nel passato, i brebbiesi non si mostrarono favorevoli al successivo avvento del fascismo, poiché si sentivano più legati alle proprie lunghe tradizioni e alla Chiesa.
Testimonianza delle discordie tra fascismo e Chiesa fu la diatriba creatasi tra giovani esponenti fascisti e cattolici che portò al trasferimento, nel 1931, di don Giovanni Spagnoli, impegnatosi nella difesa di un giovane cattolico e coadiuvato anche dalle forze popolane, schieratesi dalla sua parte così strenuamente tanto che fu necessario l’intervento dei carabinieri, per scongiurare ogni misfatto.
Con il secondo dopoguerra si ebbe una più importante ripresa economica e i brebbiesi conobbero maggiore benessere grazie alla presenza degli interventi industriali, famosa è l’azienda produttrice di pipe con museo annesso, e anche del turismo.
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